Una paternità sull’esempio di S. Giuseppe

L’episcopato è, indubbiamente, un ufficio, ma bi­sogna che il vescovo lotti con ogni energia per non diventare un «impiegato». Egli non deve dimentica­re mai di essere padre. Come ho detto, il principe Sa­pieha fu così amato perché era un padre per i suoi sacerdoti. Quando penso a chi potrebbe essere consi­derato come aiuto e modello per tutti i chiamati alla paternità — nella famiglia o nel sacerdozio, e tanto più nel ministero episcopale — mi viene in mente san Giuseppe.

Per me, anche il culto di san Giuseppe si collega con l’esperienza vissuta a Cracovia. In via Poselska, vici­no al Palazzo vescovile, ci sono le suore bernardine. Nella loro chiesa, dedicata appunto a san Giuseppe, hanno l’esposizione perpetua del Santissimo Sacra­mento. Nei momenti liberi mi recavo là a pregare e spesso il mio sguardo andava verso la bella immagine del padre putativo di Gesù, molto venerata in quella chiesa, dove una volta guidai gli esercizi spirituali per i giuristi. Mi è sempre piaciuto pensare a san Giusep­pe nel contesto della Sacra Famiglia: Gesù, Maria, Giuseppe. Invocavo l’aiuto di tutt’e tre insieme per vari problemi. Comprendo bene l’unità e l’amore che si vivevano nella Sacra Famiglia: tre cuori, un amore. In modo particolare affidavo a san Giuseppe la pasto­rale della famiglia.

A Cracovia c’è un’altra chiesa intitolata a san Giu­seppe, a Podgérze. La frequentavo durante le visite pastorali. Di eccezionale importanza è poi il santua­rio di san Giuseppe a Kalisz. Vi convengono i pellegrinaggi di ringraziamento dei sacerdoti ex prigio­nieri di Dachau. In quel campo nazista un gruppo di loro si affidò a san Giuseppe, e si salvarono. Tornati in Polonia, iniziarono a recarsi ogni anno in pellegri­naggio di ringraziamento al santuario di Kalisz, e mi invitavano sempre a quegli incontri. Tra loro ci sono l’arcivescovo Kazimierz Majdafiski, il vescovo Igna­cy lei e il cardinale Adam Kozlowiecki, missionario in Africa.

La Provvidenza preparò san Giuseppe a svolgere il ruolo di padre di Gesù Cristo. Nell’Esortazione apo­stolica a lui dedicata, Redemptoris Custos, ho scritto: «Come si deduce dai testi evangelici, il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe. È per assicurare la protezione paterna a Gesù che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di Giuseppe — una relazione che lo colloca il più vicino possibile a Cristo, termine di ogni elezione e predestinazione — passa attraverso il matrimonio con Maria» (n. 7). Giuseppe fu chiama­to a essere lo sposo castissimo di Maria proprio per far da padre a Gesù. La paternità di san Giuseppe, co­me la maternità della Santissima Vergine Maria, ha un primordiale carattere cristologico. Tutti i privilegi di Maria derivano dal fatto di essere la Madre di Cri­sto. Analogamente, tutti i privilegi di san Giuseppe derivano dal fatto di aver avuto il compito di far da padre a Cristo.

Sappiamo che Cristo si rivolgeva a Dio con la paro­la «Abba»: una parola cara e familiare, quella con cui ni, egli si rivolgeva anche a san Giuseppe. È possibile dire di più del mistero della paternità umana? Come uomo, Cristo stesso sperimentava la paternità di. Dio attraverso il suo rapporto di figliolanza con san Giu­seppe. L’incontro con Giuseppe come padre si è in­scritto nella rivelazione che Cristo ha poi fatto del pa­terno nome di Dio. È un mistero profondo!

Cristo come Dio aveva la propria esperienza della paternità divina e della figliolanza nel seno della Santissima Trinità. Come uomo sperimentò la figlio­lanza grazie a san Giuseppe. Questi, da parte sua, of­frì al Bambino che cresceva al suo fianco il sostegno dell’equilibrio maschile, della chiarezza nel vedere i problemi e del coraggio. Svolse il suo ruolo con le qualità del migliore dei padri, attingendo la forza dalla somma sorgente dalla quale «ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (Ef 345). Allo stesso tempo, in ciò che è umano egli insegnò molte cose al Figlio di Dio, al quale costruì e offrì la casa sulla terra.

La vita con Gesù fu per san Giuseppe una continua scoperta della propria vocazione a essere padre. Lo era diventato in un modo straordinario, senza dare il corpo al suo Figlio. Non è forse questa la realizza­zione della paternità che viene proposta a noi, sacer­doti e vescovi, come modello? Di fatto, tutto quanto facevo nel mio ministero lo vivevo come manifesta­zione di tale paternità: battezzare, confessare, cele­brare l’Eucaristia, predicare, richiamare, incoraggia­re era per me sempre una realizzazione della stessa paternità.

Alla casa costruita da san Giuseppe per il Figlio di Dio bisogna pensare, in modo particolare, quando si tocca il tema del celibato sacerdotale ed episcopale. Il celibato, infatti, dà la piena possibilità di realizzare questo tipo di paternità: una paternità casta, consa­crata totalmente a Cristo e alla sua vergine Madre. Il sacerdote, libero dalla sollecitudine personale per la famiglia, può dedicarsi con tutto il cuore alla missione pastorale. Si capisce pertanto la fermezza con cui la Chiesa di rito latino ha difeso la tradizione del celi­bato per i suoi sacerdoti, resistendo alle pressioni che nel corso della storia si sono, di tempo in tempo, manifestate. È una tradizione certo esigente, ma che si è rivelata singolarmente feconda di frutti spiritua­li. È tuttavia motivo di gioia constatare che anche il sacerdozio uxorato della Chiesa cattolica orientale ha dato ottime prove di zelo pastorale. In particola­re, nella lotta contro il comunismo, i sacerdoti orien­tali sposati non sono stati meno eroici dei celibi. Co­me osservò una volta il cardinale Josyf Slipyj, nei confronti dei comunisti essi mostrarono lo stesso co­raggio dei loro colleghi celibi.

Occorre poi sottolineare che, a favore del celibato, ci sono profonde ragioni teologiche. L’enciclica Sa­cerdotalis caelibatus, pubblicata nel 1967 dal mio ve­nerato predecessore Paolo VI, le sintetizza nel modo seguente (cfr. nn. 19-34):

— Vi è innanzitutto una motivazione cristologica: co­stituito Mediatore fra il Padre e il genere umano, Cri­sto è rimasto celibe per dedicarsi totalmente al servi­zio di Dio e degli uomini. Chi ha la sorte di partecipare alla dignità e alla missione di Cristo è chiamato a con­dividerne anche questa donazione totale.

— Vi è poi una motivazione ecclesiologica: Cristo ha amato la Chiesa, offrendo tutto se stesso per lei al fi­ne di farsene una Sposa gloriosa, santa e immaco­lata. Con la scelta celibataria il sacro ministro fa proprio questo amore verginale di Cristo per la Chie­sa, traendone soprannaturale vigore di fecondità spirituale.

— Vi è, infine, una motivazione escatologica: alla ri­surrezione dei morti, ha detto Gesù, «non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli di Dio in cielo» (Mt 22,30). Il celibato del sacerdote annuncia l’avvento degli ultimi tempi della salvezza e anticipa in qualche modo la consumazione del Regno, affer­mandone i valori supremi che un giorno rifulgeran­no in tutti i figli di Dio.

Nell’intento di contestare il celibato, a volte si trae argomento dalla solitudine del sacerdote, dalla soli­tudine del vescovo. Sulla base della mia esperienza, respingo decisamente tale argomento. Personalmen­te non mi sono mai sentito solo. Oltre alla consape­volezza della vicinanza del Signore, anche umana­mente ho sempre avuto intorno a me numerose persone, ho coltivato molti contatti cordiali con i sa­cerdoti — prefetti, parroci, vicari parrocchiali — e con laici di ogni categoria.

Essere con la propria gente

Alla casa costruita da san Giuseppe per il Figlio di Dio si deve pensare anche quando si parla del dovere paterno del vescovo di essere con coloro che gli sono stati affidati. Casa del vescovo, infatti, è la diocesi.

Non soltanto perché egli abita e lavora in essa, ma in un senso molto più profondo: casa del vescovo è la diocesi perché è quel luogo dove ogni giorno deve manifestare la sua fedeltà alla Chiesa – sua Sposa. Quando il Concilio di Trenta, di fronte alle perduranti negligenze in questo campo, sottolineò e definì l’ob­bligo del vescovo di risiedere nella sua diocesi, e­spresse allo stesso tempo una profonda intuizione: il vescovo deve essere con la sua Chiesa in tutti i mo­menti importanti. Non la deve lasciare, senza una fon­data ragione, per un periodo di tempo che superi il mese, comportandosi come il buon padre di famiglia che è costantemente con i suoi e, quando deve sepa­rarsi da loro, ne sente la nostalgia e vuole, quanto pri­ma, tornare da loro.

Ricordo, a questo proposito, la figura del fedele ve­scovo di Tarnòw, Jerzy Ablewicz. I sacerdoti della sua diocesi sapevano che non riceveva il venerdì. Quel giorno, infatti, si recava a piedi in pellegrinaggio a Tu­chòw, al santuario mariano. Mentre camminava pre­parava con la preghiera l’omelia domenicale. Era noto che si recava molto malvolentieri fuori della diocesi. Era sempre con i suoi, prima nella preghiera, poi nel­l’azione. Prima, però, nella preghiera. Il mistero delta nostra paternità sboccia e si sviluppa proprio da essa. Come uomini di fede, nella preghiera ci presentiamo davanti a Maria e a Giuseppe per invocarne l’aiuto e edificare così, insieme con loro e con tutti quelli che Dio ci affida, la casa per il Figlio di Dio: la sua santa Chiesa.

(estratto da Alzatevi, Andiamo – Mondadori 2004 – tutti i diritti sono dei rispettivi titolari)